Com’è cambiata la professione dell’infermiere? 

Il lavoro dell’infermiere è uno dei più antichi – anche se da pochissimo regolamentati – del mondo. L’infermiere assiste (da ad-sistere, stare vicino) i suoi pazienti in momenti spesso anche drammatici.  
Durante il nostro lavoro di studio, preparazione ed elaborazione dei corsi di formazione di Cast Education, abbiamo avuto il piacere di lavorare con il dottor Luigi Pais Dei Mori, infermiere legale, con il quale abbiamo parlato dell’evoluzione della figura dell’infermiere e preparato questa riflessione. 

Le professioni sanitarie: una risposta a un bisogno dell’uomo 

Le Professioni, tutte, sono determinate da un fattore specifico: il bisogno dell’uomo di avere competenze particolari su un determinato problema complesso. 
Se il bisogno si esaurisce, si esaurisce la necessità ontologica di quella professione. 
A questo ragionamento si aggancia il pensiero di Edoardo Manzoni, epistemologo, che rapporta geometricamente i bisogni e le professioni: nel continuum del tempo ci sono dei bisogni che esistono “da sempre e per sempre”, come, per esempio, il bisogno di assistenza

Professioni sanitarie: assistenza e assistere 

A pensarci bene, la nostra vita media si sviluppa in circa 4.500 settimane (86 anni, vi risparmio il conteggio, che certamente avete pensato di fare); di queste: 

  • circa 500 settimane le passiamo con necessità importanti di assistenza, da bambini; 
  • circa 800 settimane le passiamo come portatori attivi di assistenza, da genitori; 
  • circa 800 settimane le passiamo ancora come portatori di assistenza, con i nostri familiari anziani; 
  • circa 500 settimane le passiamo, sperando bene, come soggetti assistiti, nella nostra vecchiaia. 

Abbiamo a che fare con la fragilità, in ruoli diversi, mediamente per il 58 – 60% della nostra vita: la fragilità è una strana condizione di normalità e quindi il bisogno di assistenza è una retta, nel continuum del tempo universale, non ha un inizio e non avrà una fine, è “da sempre e per sempre”, almeno finché esisterà l’essere umano. 

Professioni sanitarie: una storia che cambia 

Nel corso della storia, però, l’uomo manifesta altri bisogni e necessita quindi di risposte specifiche: nascono le arti, i mestieri e le professioni. Ed è qui che il cerusico, oggi lo chiameremo “barbiere”, ovvero colui che tagliava i capelli alle persone (anche tagliarsi i capelli in modo dignitoso è stato un bisogno dell’uomo), ad un certo punto è stato coinvolto in altre “attività taglienti” e nacque il rudimento della chirurgia. 
Le professioni, quindi, non sono una retta, nel continuum del tempo universale, ma sono delle semirette: hanno un’origine e continuano nel tempo, secondo i bisogni dell’uomo. 
Alcuni bisogni, però, possono arrivare ad esaurimento e la semiretta diventa un segmento. 
È il caso di alcuni mestieri, giunti al loro termine, perché magari soppiantati dalla tecnologia, dall’innovazione. Più efficienza, efficacia ottimale, velocità, economicità, diffusione, mercato. 
Leggere la storia è quindi utile per capire l’evoluzione delle professioni, comprenderne il cammino e provare ad orientare i prossimi passi, per evitare l’errore, rischiosissimo, dell’immobilismo autoreferenziale. Crogiolarsi nel proprio status professionale, più o meno prestigioso nella scala sociale, rischia di trasformarsi in un autogol formidabile, perché, si sa, la storia non ha mai aspettato l’uomo. 

Leggere le professioni sanitarie a partire dai contenziosi 

Vorrei dunque provare a leggere la storia della mia Professione, quella Infermieristica, attraverso un paio di occhiali diverso dal solito, quello di un’altra nobile Professione, che ha l’onere e l’onore di giudicare la responsabilità professionale nei contenziosi. 
Siamo al Tribunale di Pavia nel 1930, forse la prima sentenza in Italia, che chiama in causa una Infermiera: “Non risponde di lesioni colpose una infermiera, la quale nell’eseguire, legalmente autorizzata, delle iniezioni, abbia perforato il nervo sciatico del paziente, producendone la paralisi, perché un’infermiera non è tenuta a conoscere l’anatomia topografica”. È curioso che una pratica, quasi “stereotipo” professionale infermieristico, nell’immaginario comune, a quel tempo doveva comunque essere “legalmente autorizzata”. Il segno del tempo lo si vede chiaramente nel nesso di causa: la malpractice, diremo noi oggi, nell’esecuzione della tecnica ha creato una lesione con importante invalidità permanente, ma il danno non può essere imputato all’Infermiera, essendo il Medico il “nume tutelare” di qualunque atto sanitario; l’ausiliarietà dell’Infermiere al Medico era, volenti o nolenti, una pacifica realtà. 

Andiamo un po’ più a nord: siamo a Bolzano, nel 1980 ed in Tribunale si discute delle responsabilità professionali connesse alla morte di una persona per un tragico errore di trascrizione della terapia. Cambia la latitudine e sono trascorsi ormai 50 anni dalla Sentenza di Pavia, ma il principio non cambia: “Il medico è responsabile dell’organizzazione interna del servizio a lui affidato e deve svolgere attività di controllo e verifica sull’operato degli ausiliari. Se il medico effettua una prescrizione di farmaci e l’infermiera la trascrive per consegnarla al malato, il primo è tenuto a controllare che la seconda non incorra in errore di trascrizione causativo della morte” – dal Tribunale di Bolzano, Sentenza 3 marzo 1980, in Rivista italiana di medicina legale, 605, 1983. 
Ma la storia, appunto, non aspetta l’uomo ed il processo di professionalizzazione dell’Infermiere continua per via normativa e, quindi giuridica. 

Professioni sanitarie: gli anni ‘90 

Gli anni ’90 sono portatori di venti di cambiamento per gli Infermieri italiani, maturati dopo passaggi faticosi, ma determinanti. Con la promulgazione della legge 42/1999, viene sancita la fine dell’ausiliarietà della Professione Infermieristica, definendo ex lege la piena autonomia e responsabilità della professione. 
Una delle Sentenze che meglio descrivono il nuovo corso della responsabilità professionale in ambito sanitario, recependo ed applicando in maniera mirabile quanto previsto dalla L. 42/1999, riporta: “Gli operatori sanitari sono tutti, ex lege, portatori di una posizione di garanzia nei confronti dei pazienti (…) posizione che va sotto il nome di  posizione di protezione,  la quale è contrassegnata dal dovere giuridico incombente al soggetto di provvedere  alla tutela di un certo bene giuridico contro qualsiasi pericolo  atto a minacciarne l’integrità[1]. Questa massima stabilisce un principio di enorme portata: tutti i sanitari devono concorrere alla sicurezza delle cure e la responsabilità professionale connessa, assume una dimensione orizzontale al di là dei verticismi gerarchici, tipici delle organizzazioni; si riconduce al diritto sovrano della Persona Assistita ad avere cure sicure e professionisti adeguati alla complessità, principio poi ripreso nelle riforme della responsabilità professionale, che si susseguiranno. 
Da qui traggono origine altri pronunciamenti giurisprudenziali, che ridiscutono la storicità delle relazioni interprofessionali, per come le avevamo conosciute “L’attività di somministrazione di farmaci deve essere eseguita dall’infermiere non in modo meccanicistico, ma in modo collaborativo col medico. In caso di dubbi sul dosaggio prescritto, l’infermiere si deve attivare non per sindacare l’efficacia terapeutica del farmaco prescritto, bensì per richiamarne l’attenzione e richiederne la rinnovazione in forma scritta[2]
Non c’è rapporto di subordinazione incondizionata tra un responsabile e i suoi collaboratori, avendo diritto ciascun sanitario dell’équipe ad esprimere opzioni diverse. In caso di condivisione delle scelte, tutti sono responsabili, con analisi delle singole posizioni, delle relative conseguenze[3].
E ancora: “Davanti a un comportamento negligente del capo équipe, il sanitario deve manifestare le proprie osservazioni e il proprio motivato dissenso per non essere coinvolto nelle responsabilità penali e disciplinari. Il sanitario non deve ciecamente eseguire le direttive del superiore, ma a fronte di scelte improprie, deve esternare le diverse valutazioni con la perizia e diligenza richieste in relazione alla posizione che ricopre”[4]
L’alibi del “me l’ha detto il Medico” decisamente non ha più lo stesso significato: “Ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza[5]

Professioni sanitarie: gli anni 2000 

Nel 2015 un Infermiere viene condannato[6], poiché non aveva rilevato l’errore di prescrizione di un medico, nonostante la persona assistita avesse dichiarato l’allergia allo stesso. La Cassazione rimarca in capo all’Infermiere la sussistenza di una “specifica posizione di garanzia”, contestando “la trascuratezza…nell’omettere di procedere alle dovute segnalazioni ai fini della correzione degli errori contenuti nella documentazione clinica riguardante il paziente”.  
In particolare, al (OMISSIS), in qualità di Infermiere professionale caposala in servizio presso il reparto di urologia dell’ospedale di (OMISSIS), era stata originariamente contestata la condotta omissiva consistita, da un lato, nel mancato rilievo, per negligenza o imperizia, del contrasto tra la prescrizione medica del farmaco e l’allergia del paziente e, dall’altro, nella mancata segnalazione di detto contrasto al personale medico”. 
Quindi collaborazione interprofessionale necessaria “non al fine di sindacare l’operato del medico (segnatamente sotto il profilo dell’efficacia terapeutica dei farmaci prescritti), bensì allo scopo di richiamarne l’attenzione sugli errori percepiti, al fine di condividerne gli eventuali dubbi circa la congruità o la pertinenza della terapia stabilita rispetto all’ipotesi soggetta a esame”. 
La Sentenza[7] forse più discussa, in tal senso, riguarda la morte di una persona alla quale era stata somministrata una dose non opportunamente diluita di cloruro di potassio. In questo caso la prescrizione era chiara, non fraintendibile, non interpretabile, ma purtroppo completamente sbagliata e, soprattutto, in contrasto con i protocolli operativi vigenti nell’Unità Operativa di riferimento. I giudici si domandano se l’Infermiera avesse il dovere (!) di “disattendere o sindacare” la chiara prescrizione terapeutica del medico, riconoscendo una “possibilità di delibazione” sulla prescrizione medica con il conseguente “onere di adeguarne l’esecuzione ai protocolli medici vigenti”.  
Nel 1980, come abbiamo visto, un Tribunale esime dalla responsabilità per omicidio colposo l’Infermiera per aver sbagliato la trascrizione di una prescrizione[8]; nel 2016 la stessa Infermiera deve, di fatto, ignorare e modificare la prescrizione, qualora sia pericolosa per la vita della Persona Assistita.  
 
Dura lex, sed lex

Riferimenti bibliografici: 

 
[1] Tribunale di Bolzano, Sentenza 3 marzo 1980, in Rivista italiana di medicina legale, 605, 1983 

[1] Suprema Corte di Cassazione, IV sezione Penale, numero 447 del 2 marzo 2000 

[2] Corte di Cassazione, IV sezione penale, Sentenza n. 1878/2000 

[3] Corte di Cassazione, IV sezione penale, Sentenza n. 226/2003 

[4] Corte di Cassazione, IV sezione penale, Sentenza n. 4013/2004 

[5] Corte di Cassazione, IV sezione penale, Sentenza n. 43988/2013 

[6] Corte di Cassazione, IV sezione penale, Sentenza n. 2192/2015 

[7] Corte di Cassazione, III sezione civile, Sentenza n. 7106/2016 

[8]Se il medico effettua una prescrizione di farmaci e l’infermiera la trascrive per consegnarla al malato, il primo è tenuto a controllare che la seconda non incorra in errore di trascrizione causativo della morte” – Tribunale di Bolzano, Sentenza 3 marzo 1980. 

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