Nella creazione dell’offerta formativa in Cast Education abbiamo lavorato con professionisti sanitari che hanno dato un’impronta importante e personale ai corsi di formazione. Tra questi, una menzione particolare va a “L’importanza dell’assistenza psicosociale nel percorso di un bambino malato”, prodotto grazie alla preziosa collaborazione di tre figure professionali che hanno dedicato – e stanno dedicando – la loro vita alla cura del bambino in un momento terribile e delicato: quello dell’incontro col cancro.
Momcilo Jankovic, il “Dottor Sorriso” monzese, pediatra ed ematologo, è stato presidente dell’Associazione Italiana di Ematologia ed Oncologia pediatrica (AIEOP). Dal 2010 fa parte del Comitato di Bioetica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano.
Franca Benini è medico specializzato in Pediatria, Anestesia e Rianimazione, ed è responsabile del Centro regionale veneto di Terapia del Dolore e Cure Palliative Pediatriche.
Infine, Federico Pellegatta, infermiere professionista e docente in Scienze Pediatriche presso l’Università di Milano, coordinatore dell’hospice pediatrico di Milano.
Abbiamo chiacchierato proprio con Federico Pellegatta sulla sua professione e sul percorso che l’ha spinto a lavorare in un contesto così profondo e delicato.
Federico Pellegatta – Il valore delle parole (clicca per guardare il video)
Dottor Pellegatta, come ha scelto di lavorare nell’oncologia pediatrica?
«Ho sempre pensato di voler stare a contatto con l’altro nella difficoltà, anche dal punto di vista sanitario e clinico, in modo da restare nella dimensione dell’aiuto. Gli anni di università sono serviti a testarsi in diversi contesti, e ricordo che l’oncologia pediatrica è stato uno dei primi in cui mi sono imbattuto. Mi sono accorto che reagivo bene e oggi sono felice di questa scelta, ben sapendo che è un ambito in cui bisogna mettersi alla prova di continuo e cambiare approcci qualora serva».
In cosa si diversifica il lavoro dell’infermiere nel contesto pediatrico?
«Quando parliamo di Pediatria ci riferiamo a un mondo molto ampio, che ha a che fare con diverse fasce d’età: dal feto, al neonato, al bambino, all’adolescente e a tratti anche al giovane adulto. Siamo quindi in una dimensione di crescita del soggetto di cura che è assolutamente da tenere in considerazione. Per stare all’interno di una relazione con individui in crescita, bisogna fare i conti con il fatto che questa relazione non può prescindere dalla famiglia, composta non solo dai genitori, ma anche dai nonni, dai fratelli, dai parenti stretti. Inoltre, ci sono tante differenze dal punto di vista strettamente tecnico, farmacologico, assistenziale, di approccio.
Come si comunica con il bambino?
«La comunicazione dipende dal bambino, dipende dal bambino che si ha di fronte, dall’età, dal modo in cui percepisce e sviluppa la paura, dalla malattia. Il primo obiettivo della comunicazione è conoscere quel bambino e per farlo dobbiamo raccogliere più informazioni possibili – a volte arrivano dal bambino stesso, altre volte dai racconti dei genitori. Come sta? Come vive all’interno del mondo? Quanto è curioso? Quanto è spaventato? Importanti anche le informazioni relative alle sue relazioni. A che punto di sviluppo è e come sta nelle relazioni con gli amici? Qual è la sua principale preoccupazione? Come vive la scuola, l’eventuale perdita dell’autonomia, la perdita della sua estetica? Una volta che si ha più o meno chiaro lo stato del bambino, possiamo utilizzare un altro strumento di comunicazione fondamentale: la fantasia. Un po’ di sana fantasia comunicativa è utile per comunicare efficacemente la nuova situazione. Dove non è facile spiegare con la realtà, si arriva con storie, metafore, idee».
Come ci si deve approcciare alla comunicazione di una malattia con un genitore?
«Con l’umanità, con la consapevolezza che quello che stai facendo è qualcosa che cambierà la condizione di quella famiglia. Non bisogna partire negando la situazione, né esagerandola. Non è il caso poi, di stare troppo sul piano tecnico, ma è essenziale ricordarsi che si parla con una persona che sta per sentirsi dire che la cosa più cara che ha al mondo, suo figlio, ha una malattia che può essere molto grave. È un pensiero che bisogna avere fisso in testa non solo durante la diagnosi, ma anche durante la prognosi e l’intero percorso della malattia, che può essere migliorativo ma anche, purtroppo, peggiorativo».
La comunicazione cambia se si tratta di una buona o cattiva notizia?
«Credo che la comunicazione non dovrebbe cambiare a seconda dell’esito, fausto o infausto, della malattia. Quello che si stabilisce con la famiglia in termini di alleanza comunicativa, che è un’alleanza terapeutica, è qualche cosa che non deve cambiare. Lo stile comunicativo che si sceglie di avere dipende dalla famiglia che si ha davanti, ma deve sempre passare attraverso il cuore. Un cuore guidato dalla testa, con emozioni che vengono controllate e governate, ma che alle volte bisogna lasciare un po’ uscire. Se lo stile scelto è condiviso e stabilito insieme alla famiglia e al bambino, si crea una continuità relazionale che alla fine paga, anche nel momento in cui bisogna dare buone o brutte notizie. Conosco quella famiglia, capisco come reagisce, sono molto attento alla dimensione della comunicazione nella quale non mi limito solo al contenuto, ma valuto la reazione, valuto il setting, valuto quali sono i fattori influenzanti, raccolgo le ricadute… il tutto in una dimensione di continuità».
Parlava di emozioni: come può gestire un operatore sanitario le emozioni, sicuramente fortissime, che prova in un ambiente come questo, specie se lo stato di salute del piccolo può cambiare da un momento all’altro?
«L’operatore sanitario che si trova di fronte a una condizione di difficoltà, di cambiamento della condizione di stato del bambino, deve in primo luogo fare i conti con sé stesso e iniziare a capire dove inizia il bisogno della famiglia e dove il suo. Questo richiede agli operatori un gran senso di consapevolezza. Ciò che facciamo, spesso, è cercare di immedesimarci, di entrare all’interno le situazioni delle famiglie fino a mischiare il nostro io con l’io della famiglia in questione. Fare i conti con noi stessi, capire quali sono le nostre emozioni, quali sono le emozioni invece della famiglia, è un punto di separazione fondamentale dal quale partire. Una volta fatto questo, l’emozione del singolo operatore deve essere portata all’interno di un momento di discussione, quindi è importante organizzare delle riunioni, momenti di confronto tra professionisti in cui ci sia spazio per discutere del caso».
Fare l’infermiere pediatrico è una missione?
«No, non credo lo sia. Io vivo il mio mestiere come una professione. Sono consapevole del fatto che viviamo situazioni che rischiano di farci logorare perché continuamente stretti a confronto con la fatica dell’altro, ma ciò si risolve mettendo sé al centro, ascoltando i propri bisogni e staccando quando c’è da staccare».
Cosa consiglierebbe a un giovane infermiere che vuole intraprendere il mestiere?
«Consiglierei di avvicinarsi a questa professione con la passione e con la consapevolezza del fatto che noi non salviamo vite, ma stiamo con le persone che combattono battaglie difficili in un momento molto impegnativo dalla loro vita, e che le possiamo aiutare con le armi che abbiamo a disposizione, ovvero le terapie. Bisogna prestare tanta attenzione allo “stare”, all’essere presente, e imparare a comunicare. Fondamentali poi sono la pazienza, la curiosità, la continua verifica, la continua sperimentazione, che non devono sostituire la tecnica e la volontà di studiare e imparare ciò che ancora non si sa. Un accenno alla precisione: noi viviamo in un sistema sanitario in cui, quando si parla di precisione, si intende solo quella metodologica procedurale, dimenticandosi quella comunicativa».
In questi anni ha avuto modo di affacciarsi a tante situazioni diverse e conoscere piccoli pazienti con storie speciali e emozionanti. Ce n’è una che vorrebbe condividere con noi?
«Certamente. La storia è stata approfondita nel corso “L’importanza dell’assistenza psicosociale nel percorso di un bambino malato”. Pietro era un bambino di 5 anni che, dopo la comunicazione di diagnosi di leucemia, si era completamente chiuso all’interno del suo mondo. Tutti provavamo a entrare in relazione con lui, fino a quando non è arrivato Alessandro, un volontario dell’ABIO, l’associazione bambini in ospedale, venuto a fare un po’ di attività ludiche all’interno del reparto. Quando Alessandro è arrivato nella stanza di Pietro, propone un gioco di magia: il bambino era completamente rapito da lui. Così, a poco a poco, si è aperto un canale di comunicazione che noi sanitari non avevamo preso in considerazione. Pietro non aveva forse bisogno di spiegazioni ma di qualcuno che stesse a giocare con lui. Qualcuno senza camice bianco, con cui poter parlare.
Racconto questa storia perché spesso, quando parliamo di comunicazione con i bambini, ci si dimentica che la comunicazione più efficace non sempre è quella del professionista sanitario: a volte i migliori canali di comunicazione attraversano persone diverse, come i volontari, fondamentali in tutto il percorso terapeutico».
Per scoprire il corso “L’importanza dell’assistenza psicosociale nel percorso di un bambino malato” e la nostra offerta formativa, non esitate a contattarci: il team di Cast Education è sempre pronto a rispondere a qualsiasi domanda.